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Marin Sanudo e le cronache veneziane




Senatore della Repubblica Serenissima e storiografo, Marin Sanudo nacque e mori a Venezia (1466-1543). Abitò nel sestiere di Santa Croce, sulla Fondamenta del Megio (cioè del miglio, per via del grande magazzino ivi presente).
Fu un importante cronachista della vita veneziana, che descrisse accuratamente in ben 58 volumi. Si occupò di vicende politiche, economiche e militari, ma anche quotidiane e di costume dell'epoca.
I volumi, che vennero pubblicati col titolo di Diarii ed erano composti in lingua veneziana, sono tutt'oggi una fonte inesauribile di notizie per qualunque studioso di storia veneziana, ma anche un semplice lettore vi può trovare innumerevoli particolari e curiosità. La sua scrittura è semplice e diretta, e priva di retorica alcuna.
Marin Sanudo fu anche autore di altre imprese letterarie: Le vite dei DogiItinerario per la terraferma venezianaDe situ et magistratibus urbis Venetae, anch'esse fonti notevoli di informazioni.
Egli possedeva inoltre un'importante biblioteca privata di opere manoscritte e a stampa (tra cui le Cronache di Altino e alcune opere di Poliziano ed Ovidio edite da Aldo Manuzio), molto ammirata dai sui contemporanei, che purtroppo però è andata dispersa con i saccheggi napoleonici.
Nel 1531 il Senato gli concederà un vitalizio di 150 ducati l'anno come riconoscimento dell'alto valore della sua opera.

Gastronomia veneto-bizantina




Un incessante andirivieni di uomini e merci collega le sponde dell'Adriatico con quelle dell'Egeo: grano da Cipro, vino e olio da Creta, sale e uva passa da Cefalonia e Zante, sono i prodotti monopolistici trasportati con profitto dalla Serenissima.
Tranne qualche rara eccezione, nel contesto lagunare le imprese elleniche sono di dimensioni medio-piccole, tuttavia è molto ampio l'elenco delle merci trattate. Cotone, lane, tappeti, drappi fatti di pelo di capra chiamati cameloti, coperte di lana ruvida dette schiavine, sono apprezzati nelle case veneziane. Anche la cera è un prodotto importato dai greci. Quanto a grano, orzo, fave e semi di lino, riempiono i magazzini di una città che "non ara, non semina, non vendemmia" ma che trae risorse da ogni porto.
Un discorso a parte merita il vino, che a Venezia non è mai mancato. Chiuso in orci di terracotta da 30 litri, da Creta, da Cipro, dal Peloponneso, i mercanti greci trasportano i cosiddetti "vini navigati", che vengono speziati o addolciti con miele o melassa, per conservarli meglio. Di quest'antico metodo oggi rimane solo la bevanda tonificante dei freddi carnevali: il vin brulé, che si beve caldo con zucchero, cannella, chiodi di garofano e cardamomo.
Ma il  nettare di cui si fa più smercio è l'assai delicata malvasia (termine derivato dalla città greca Monemvassìa), che si divideva in dolcetonda e garba, ed era tanto apprezzata da essere registrata nelle spese pubbliche. Come annotava lo storico Giuseppe Tassini: "di tal vino con semplici biscottini componevansi le colazioni degli stessi elettori dei dogi; e di tal vino usavasi anche pel sacrificio della Messa, e per le comunioni".