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Osterie, Bacari e dintorni a Venezia




A Venezia si incontrano diverse Calli del Magazen (di cui vediamo nella foto un nizioletto curiosamente reinterpretato), ma contrariamente a quanto potrebbe sembrare i Magazen non erano "magazzini", ma rivendite di vino al minuto. Nei Magazen inoltre si praticava il prestito su pegno e vi si riceveva in cambio due terzi in denaro e un terzo in vino di bassa qualità, detto appunto “vin da pegni”.
Anticamente a Venezia esistevano varie tipologie di locali, oltre ai magazen c’erano le osterie, che svolgevano anche funzione di albergo, poi c’erano le malvasie, dedite alla sola rivendita di vino foresto, cioè straniero (ricordiamo che la malvasia non è un vino siciliano ma greco), poi c’erano i bastioni e i samarchi, vere e proprie bettole dove si potevano anche mangiare i famosi cicheti, cioè gli antenati delle tapas spagnole, poi c’erano le furatole, dove si consumavano pasti veri e propri, infine c’erano i fritolini, dove si consumava solo pesce fritto e polenta.
Più recenti sono i "bacari", locali dove tradizionalmente si beve un'ombra di vino e si gustano i cicheti. Il nome forse deriva dai "bacari" (singolare: bacaro), un termine, che a sua volta deriva dal "Baccho", dio del vino. Secondo un'altra teoria deriva da "far bàcara", espressione veneziana per "festeggiare". "Bacari" si chiamavano una volta quei vignaioli e vinai, che venivano a Venezia con un barile di vino per venderlo in Piazza San Marco, insieme con dei piccoli spuntini.
Nei veri bacari è possibile consumare anche vino di ottima qualità.

"Chi ben beve, ben dorme,
chi ben dorme, mal no pensa,
chi mal no pensa, mal no fa,
chi mal no fa, in Paradiso va.
Ora ben bevè che el Paradiso avarè!"

Giuseppe Tassini, il veneziano 'curioso'




"Fuvvi tempo in cui curiosità ci spinse ad indagare l'origine delle denominazioni stradali di Venezia". Così iniziava il Tassini la prefazione della prima edizione del suo libro Curiosità Veneziane (1863).
Giuseppe Tassini nacque il 12 novembre 1827 in una famiglia della borghesia veneziana. Suo nonno era vissuto molti anni a Costantinopoli come Ambasciatore della Serenissima presso la Sublime Porta. Suo padre, nato a Costantinopoli, fu ufficiale nella Veneta Marina Austriaca e sposò la figlia di un colonnello dell'esercito austriaco. Soleva infatti dire:"Nato da padre turco e madre tedesca non posso esser che strambo!".
La sua gioventù fu piuttosto disordinata: avviato agli studi giuridici a Padova, li aveva trascurati ostentatamente per darsi alla bella vita. Ma nel 1858 la morte del padre sembra scuoterlo dalla sua indolenza e riprende gli studi. A quasi trentatre anni consegue la laurea e di lì a poco comincia ad interessarsi al tema che lo accompagnerà fino alla fine: gli studi su Venezia e sulla sua storia.
Egli fu autore di diversi saggi relativi alla storia di Venezia, scritti elaborati con un'angolazione particolare, per mettere in evidenza adettoti e curiosità, storie minime, che hanno appassionato generazioni di lettori.
Ne ricordiamo solo alcuni:
Curiosità Veneziane
- Veronica Franco, celebre letterata e meretrice veneziana
- Alcune delle più clamorose condanne capitali eseguite a Venezia
    
Insolite furono le sue opere, ma anche la sua vita. Uomo solitario, viveva tra carte d'archivio e di biblioteca, ma diversamente da molti altri studiosi, non si cibava di sola cultura, ma era un gran mangiatore e un ottimo bevitore, come la sua stazza stava a testimoniare.
Amava le donne, e poiché era scettico, cinico forse, non chiedeva loro più di quello che egli stesso loro desse di sé: qualche ora d'oblio, nella soddisfazione dei sensi. Egli aveva bandito dalla sua vita ogni ingombro sentimentale, non credeva all'amore, né a nessun'altra astrazione di sentimento umano. E si studiava di aver il minor numero possibile di padroni del suo destino. Contava i suoi amici tra gli eruditi e i cultori degli studi veneziani, ma all'infuori degli incontri al caffè non manteneva relazioni con chicchessia. E nulla chiedeva a nessuno. Studiava per suo piacere, per soddisfare la sua curiosità, e scriveva per naturale inclinazione.

Probabilmente furono i suoi eccessi nel bere e nel mangiare a portarlo alla morte, per colpo apoplettico, nel 1899, nella sua casa presso il sotoportego delle Cariole, non lontano da San Zulian (nel 1988 il Comune di Venezia vi fece apporre una targa in sua memoria), dove lo trovò disteso a terra il cameriere che era solito portargli il caffè tutte le mattine.
Giuseppe Tassini non fu uno storico, fu un amabile, talvolta sornione, rievocatore della vita di un tempo, di azioni nobili e meschine, eroiche e vili, turpi e virtuose in una città singolarissima che, per chi non solo l'ama come spettacolo, ma la vuol vivere come avventura, come esperienza, ha nei suoi scritti un'introduzione impareggiabile

Josif Brodskji, il poeta russo che amò Venezia




In America sul comodino degli alberghi, si trova una copia della Bibbia. Da qualche anno, in quelli più importanti, anche un libro di Josif Brodskji, un uomo convinto che la poesia come le automobili, può portare lontano, perché è uno straordinario acceleratore mentale, e il poeta è l’animale più sano, l’unico che riesca a fondere il mondo razionale con il mondo intuitivo.

Josif Brodskji nasce a S. Pietroburgo il 24 maggio del 1940. Il padre Alexandr era ufficiale della Marina sovietica con la passione per la fotografia. Una passione che diventò un mestiere-ripiego, quando, a causa dell’origine ebraica, sopraggiunse il prepensionamento, perché l’antisemitismo stava diventando dottrina di stato. La madre Maria Volpert, durante la guerra lavorò come traduttrice nei campi di lavoro per prigionieri tedeschi, e finì per fare la contabile.

Esordì nel 1958 pubblicando alcune poesie in una rivista clandestina; venne subito riconosciuto come uno dei poeti di maggior talento della sua generazione e ricevette il sostegno della poetessa Anna Achmatova, che gli dedicò una delle sue raccolte (1963).
Fu denunciato per la prima volta da un giornale di Leningrado, che attaccò i suoi lavori come pornografici e antisovietici.
Nel 1964 fu arrestato con l'accusa di parassitismo e condannato, dopo un processo che scatenò violente reazioni nell'opinione pubblica mondiale, a cinque anni di lavori forzati. Rilasciato dopo diciotto mesi, tornò a vivere a Leningrado, dedicandosi soprattutto alla traduzione di poeti inglesi.
Nel frattempo venne pubblicata a New York, nel 1970, la sua raccolta di versi Fermata nel deserto, che confermò il suo straordinario estro poetico.
Nel 1972 fu costretto dalle autorità sovietiche a emigrare e si stabilì negli Stati Uniti, dove tenne corsi in varie università e svolse ampia attività pubblicistica (Fuga da Bisanzio (Less than one), 1986) e poetica (Elegie romane, 1982).
Nel 1987 fu insignito del premio Nobel per la letteratura.

A dare il ritmo al suo destino saranno S. Pietroburgo e quel quotidiano fatto di diversità consapevole, coltivata dalla sua famiglia, in un Paese in cui la regola era essere uguali. Una città sospesa, lontana, affollata d’odori, ricordi, densa di personaggi letterari, e mai dimenticata, ritrovata in Venezia, in una sorta di trasposizione fisica e letteraria, di cui ci lascerà la descrizione in Fondamenta degli Incurabili (1989), attraverso un inimitabile gioco di specchi.

È quella città, insieme con una capacità di raccogliere tutto quello che si sospendeva sulla retina, ad averlo reso grande. Sia la fotografia sia la poesia colgono frammenti di vissuto, ma se la prima coglie l’attimo, la superficie, la seconda guarda all’eterno.

Ogni anno in prossimità delle feste natalizie, Josif Brodskji si recava a Venezia. Riteneva che fosse l’unico periodo possibile per viverla. La nebbia, i colori smorzati, il suono dell’acqua, non erano disturbati dallo sciame di turisti e permettevano all’occhio di studiare il mondo esteriore, perché le basse temperature erano il clima ideale per rendere omaggio alla sua bellezza. E poi la nebbia consentiva di dimenticarsi di sé, in una città che aveva smesso di farsi vedere. Del resto per lui le stagioni erano delle metafore, e l’inverno da qualsiasi continente si veda è un po’ antartico.

L’acqua è il luogo dove il tempo fisico e quello metafisico si fondono. L’elemento che mette in discussione il principio d’orizzontalità, che rivela la profonda solitudine di ogni essere umano, la sua precarietà, trasformando anche i piedi in organo dei sensi. E se l’acqua è uguale al tempo, Venezia che dall’acqua è toccata, non fa altro che migliorare, abbellire il tempo, restando uguale a se stessa.

Per Brodskji, annusare Venezia è come toccare la propria essenza dispersa, entrare nel proprio autoritratto. Essere felice. Una felicità legata all’equilibrio sensoriale, l’unica che avrebbe potuto accettare.

Basterebbe questo per fare di Fondamenta degli incurabili, un libro da custodire gelosamente perché l’acqua, oltre alla città e ai sensi, sono i protagonisti assoluti:
“Acqua è uguale a Tempo, e l’acqua offre alla bellezza il suo doppio. Noi, fatti in parte d’acqua,  serviamo la bellezza allo stesso modo. Toccando l’acqua, questa città migliora l’aspetto del tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell’Universo. Perché la città è statica mentre noi siamo in movimento. La lacrima ne è la dimostrazione. Perché noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro, mentre la bellezza è l’eterno presente. La lacrima è una regressione, un omaggio del futuro al passato. Ovvero è ciò che rimane sottraendo qualcosa di superiore a qualcosa di inferiore: la bellezza all’uomo. Lo stesso vale per l’amore, perché anche l’amore è superiore, anch’esso è più grande di chi ama.”

Morì nel proprio appartamento di Brooklyn per un attacco di cuore nel 1996.
Per sua volontà è stato sepolto nel cimitero dell’isola di San Michele a Venezia.

« Giudice: Qual è la tua professione?,
Brodskij: Traduttore e poeta.
Giudice: Chi ti ha riconosciuto come poeta? Chi ti ha arruolato nei ranghi dei poeti?
Brodskij: Nessuno. Chi mi ha arruolato nei ranghi del genere umano? »
(Atti del processo del 1964)

Castradina Sciavona




Un tempo la Riva degli Schiavoni non era così ampia e soprattutto non era la tipica passeggiata che è oggi, ma era lo scalo delle navi commerciali che giungevano dall’oriente; questa era la vera porta d’ingresso alla città prima che la costruzione del ponte della Libertà ancorasse Venezia alla terraferma costringendoci ad entrare dal retro…
Qui attraccavano galee mercantili, tartàne albanesi e bastimenti turchi, sulla fondamenta si incontravano marinai orientali con braghesse, fez e scarpe a punta, e non c’erano certo alberghi di lusso, ma casotti di legno per lo stoccaggio delle merci, banchi di vendita all’ingrosso, squeri (cioè cantieri per il rimessaggio e la riparazione delle barche), e un incredibile viavai di merci e uomini, un intreccio di facce, lingue, e abiti che arrivavano da tutti i porti per scaricare prodotti di ogni genere, soprattutto alimentari: formaggi, pesce, animali vivi come agnelli, montoni, bovini.
Animali che  per lo più giungevano dai Balcani, ed è per questo che la Riva prese a chiamarsi “degli Schiavoni”, perché con il termine Sclavonia si indicava la fascia costiera della Dalmazia, della Bosnia e dell’Albania. Dopo aver scaricato le loro merci le navi ripartivano cariche di manufatti di metallo, di legno, ferro e di armi… insomma un immagine ben diversa da quella di oggi!
Di quel periodo resta memoria in un tipico piatto che si consuma ancora oggi a Venezia in occasione della Festa della Salute il 21 di Novembre, e cioè la Castradina S'ciavona, in pratica carne di montone castrato affumicata ed essicata al sole, servita con brodo di verze.
Ecco la ricetta:
"Per fare una buona castradina cole verze ci vuole innanzitutto tempo. Si lascia la carne di montone a bagno per un giorno, in acqua prima bollente poi tiepida. Si lava in molte acque, si taglia a pezzetti e la si mette sul fuoco con gli aromi d'uso. Si lascia bollire e freddare, e la si pone in luogo fresco. Il giorno dopo si toglie il grasso rappreso che si è formato in superficie e si rimette la pentola sul fuoco con le verdure del brodo e le foglie, abbondanti, di cavolo verzotto. Si fa sobbollire, senza fretta, fino a quando la carne non diventa tenera e le verze ben cotte"

Elena Lucrezia Corner Piscopia




Certo non è una prova definitiva della condizione femminile a Venezia all'epoca della Serenissima, il fatto che una nobildonna veneziana, Elena Lucrezia, Corner Piscopia, sia stata la prima donna al mondo a conseguire una laurea, però possiamo considerarlo un indice significativo del fatto che a Venezia le donne avevano una libertà superiore a quella del resto d'Europa.
Il padre di Elena si chiamava Giovanni Battista, era Procuratore di San Marco (la più alta carica dignitaria dopo il Doge) ed era un uomo di grande cultura: disponeva di una biblioteca personale di circa 4.000 volumi. Elena crebbe in questo ambiente e trovò nel padre incoraggiamento e aiuto al conseguimento dei suoi obiettivi culturali.
Elena nacque nel 1646 nel palazzo sul Canal Grande che diventerà di proprietà della famiglia Loredan e che oggi ospita il Municipio di Venezia. A sette anni il padre la affida ad insegnanti privati e a 15 anni parlava correntemente greco, latino, ebraico, spagnolo, francese e arabo. Ma lei studia anche matematica, astronomia e filosofia sotto la guida di uno dei maggiori scienziati del momento, Carlo Rinaldini.
Il padre consapevole del suo talento la iscrive all'Università di Padova, dove Elena vorrebbe studiare teologia, ma non le viene consentito. Sceglie quindi di dedicarsi alla filosofia, e nel 1677, in presenza dell'intero collegio di Padova, di gran parte del Senato e di un folto pubblico, sostenne la tesi sull'Analitica e Fisica di Aristotele. Il 25 giugno del 1678 viene insignita, prima donna al mondo, del titolo di "doctor". Data la grande affluenza di pubblico, la cerimonia si svolse in una chiesa!
Negli ultimi anni della sua vita si dedicò, all'assistenza dei poveri. Morì a Padova il 26 luglio del 1684 malata di tubercolosi. Le sue spoglie riposano  nella chiesa di Santa Giustina.

La Biennale di Venezia





La Biennale di Venezia, nata nel 1895, deve il suo nome alla cadenza dell’Esposizione Internazionale d’Arte, voluta e sostenuta da un gruppo di intellettuali dell’epoca, tra cui Riccardo Selvatico, commediografo e poeta, allora sindaco della città.
Negli anni Trenta l’istituzione veneziana diventa Ente Autonomo sotto il controllo del Governo Italiano. Hanno inizio in quegli anni: il Festival della Musica (1930), la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica (1932), il Festival Internazionale di Teatro e di Prosa (1934).
Le rassegne sono sempre accompagnate da eventi speciali e retrospettive di artisti italiani e stranieri.
Fin dall’inizio la Biennale si configura come una delle principali istituzioni organizzatrici di manifestazioni nei diversi settori delle arti e della cultura contemporanea.
Nel 1968 la contestazione investe anche la Biennale, che sospende in parte le sue attività, ma viene poi riformata con nuove idee e forti impulsi nel 1973.
Dal 1975 sono realizzate anche rassegne di Architettura.
Nel 1998 la Biennale, da Ente Autonomo, diventa Società di Cultura, soggetto giuridico privato.
A tutt’oggi la Biennale interviene con mostre, esposizioni e attività culturali nei settori: arti visive, architettura, cinema, musica, teatro, danza e, grazie alla raccolta di documenti conservata nel suo Archivio Storico, svolge una funzione primaria per lo studio e la ricerca nell’ambito dell’arte contemporanea.

E’ importante ricordare anche la storia delle strutture che la ospitano: già nei primi decenni del Novecento iniziarono a sorgere nei Giardini di Castello ben 27 strutture nate dagli studi di famosi architetti, tra cui: Carlo Scarpa, James Stirling, Alvar Aalto, Bruno Giacometti, e il gruppo BBPR. Negli anni seguenti gli spazi occupati dall’Esposizione vennero sempre più ampliati, fino ad utilizzare anche ampie zone in disuso del vicino Arsenale (come le Corderie). A questi si aggiunsero i Saloni del Sale alle Zattere, e i Granai alla Giudecca negli anni Ottanta. Dopo l’ulteriore utilizzo di nuove aree dell’Arsenale oggi si può ben dire che quasi l’intera città partecipa offrendo sempre nuovi spazi ad esposizioni e installazioni.

Da segnalare che quest’anno il Direttore del Settore Architettura sarà Kazuyo Sejima, nata in Giappone, nella prefettura di Ibaraki, nel 1956 e prima donna a salire sul gradino più alto della rassegna lagunare. Formatasi nello studio di Toyo Ito, nel 1995 - insieme a Ryue Nishizawa - fonda SANAA, lo studio di Tokyo che ha firmato alcune fra le più innovative opere di architettura realizzate di recente in tutto il mondo, dal New Museum di New York al Serpentine Pavilion di Londra, al 21st Century Museum of Contemporary Art di Kanazawa, premiato nel 2004 proprio col Leone d'Oro della 9 Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia per l'opera più significativa.

Galleria fotografica edizione 2009

Isola di San Giorgio in Alga




Il nome dell' isola si riferisce alla presenza di alghe nella zona proliferate a causa dell'ambiente che si era creato nella fusione delle acque del fiume Brenta con quelle della laguna.
In quella zona si ha memoria, intorno al Trecento, dell'esistenza della così detta "Puncta canetorum", sorta di lunga penisola che si era formata da Fusina fino a collegarsi quasi con Venezia a Santa Marta. Terra che venne rimossa per impedire una facile via d'accesso alla città ad eventuali nemici. Si dispose di prelevare da quel sito la terra che serviva per bonificare e interrare altre zone della laguna.
L'isola di San Giorgio in Alga era luogo di accoglienza e di congedo di eminenti personaggi che giungevano a Venezia. Si ricorda in proposito la grande cerimonia organizzata per la partenza del re di Francia Enrico III per Fusina accompagnato dal doge Mocenigo, e in seguito l'accoglienza fatta al papa Pio VI.
Vi aveva sede un monastero benedettino, poi dal 1350 fu degli eremiti agostiniani.
Ma fu nel '400, con l'arrivo dei Canonici Regolari, che l'eremo divenne importante centro di umanisti. Fra questi si ricordano: Gabriele Condulmer, che divenne papa col nome di Eugenio IV, e quel Lorenzo Giustinian, detto "il Santo" che, dopo essere stato priore del monastero, fu nominato primo Patriarca di Venezia.
Il monastero vantava una preziosa biblioteca e varie opere d'arte del Veronese, del Vivarini e del Bellini; un angolo della laguna meta di raffinati studiosi.
Vi funzionava un sistema di segnalazioni per facilitare la navigazione delle imbarcazioni di passaggio, e la grande "cavana" accoglieva i natanti in caso di tempesta.
Ai Canonici Regolari subentrarono i Carmelitani Scalzi che vi rimasero fino al '700.
Nel 1717 un devastante incendio distrusse il sito con le sue preziose opere d'arte, biblioteca ed arredi vari; un vero disastro che segnò definitivamente il luogo.
Trasformato in carcere politico, con la caduta della Repubblica fu utilizzata come polveriera.
Ora restano i ruderi della chiesa, del monastero, della cavana, spogliati dei fregi, delle patere e di una vera da pozzo. C'era sull'angolo delle mura una statua della Madonna che ora è sistemata a Mazzorbo.

Acqua dolce a Venezia




"Venezia è in acqua ma non ha acqua" (M. Sanudo)
L'approvvigionamento di acqua potabile fu problema di primaria importanza per Venezia fin dai primi momenti della sua vita, e si può dire si protrasse lungo tutto l'arco della sua millenaria storia.
Quando le popolazioni della terraferma, sotto la pressione delle invasioni barbariche, trovarono rifugio nelle isole della laguna, è molto probabile che abbiano dapprima approfittato delle acque dei fiumi che entravano in laguna. Si sa per certo che si procuravano l'acqua anche da pozzi naturali di acqua piovana.
Con il trasferimento della sede del governo a Rialto, per evitare la spesa del trasporto dell'acqua dolce dai pozzi del litorale, si cominciarono a realizzare una o più cisterne d'uso pubblico nei cortili delle case, cisterne che raccoglievano l'acqua piovana dopo essere stata filtrata da uno strato di sabbia . All'inizio del 1300 in città erano presenti già un centinaio di pozzi.
Allo scopo di incrementare sempre più il numero di pozzi furono presi provvedimenti di varia natura, ad esempio le corporazioni religiose che ne avessero costruiti all'interno dei conventi venivano largamente sovvenzionate dallo Stato purché i pozzi fossero lasciati in libero uso a tutti i cittadini.
Furono adottate misure di vigilanza per evitare sprechi nel consumo: i parroci (detti appunto "piovani") custodivano le chiavi dei pozzi con l'incarico di aprirli due sole volte al giorno, al suono della "campana dei pozzi". Esistevano anche pozzi dedicati al solo uso dei poveri, come quello di San Marcuola.
Ma il continuo aumento della popolazione e dei commerci determinò un consumo di acqua tale che le cisterne non erano più sufficienti. Pertanto nel 1540 il Senato decretò la realizzazione dello scavo del canale Seriola allo scopo di portare le acque del fiume Brenta fino ai margini della laguna, presso Fusina, in modo da rendere più agevole il trasporto dell'acqua a Venezia. Il trasporto veniva effettuato tramite barche apposite chiamate "burchi". Addetti a questo trasporto erano gli "acquaroli", associazione costituitasi  fin dal secolo XIV, con sede in un modesto edificio nel pressi della Chiesa di San Basegio.
L'acqua poteva essere venduta in piccole quantità, per le strade, dai "bigolanti", al grido "acqua mo!". Questi venditori ambulanti portavano l'acqua dolce direttamente alle case o ai negozi che ne facevano richiesta.
Nel Settecento i "bigolanti" erano circa un centinaio (per lo più donne) e acquisivano il diritto di vendita con un contributo annuo di 20 soldi pagato agli "acquaroli".

Venezia e le sue donne




Ci sono dei pregiudizi ancora abbastanza radicati sulla vita dei veneziani ai tempi della Repubblica. Sono pregiudizi che risalgono al 1818 quando apparve il libro di Pierre-Antoine Daru, Historie de la Rèpublique de Venise, che presenta il governo veneziano come regime bieco e tirannico. Niente di più falso.
Venezia fu il rifugio di perseguitati politici di altri stati, aveva una regolamentazione carceraria umana (cosa che ancora oggi non tutti gli stati hanno), e una politica sociale invidiabile. E la condizione femminile a Venezia appare unica per dignità e libertà, certamente ancora insufficiente ed inadeguata, ma di sicuro incomparabile con quella di altri stati in quella epoca.
Si legge nell'Editto di Rotari: "Se la moglie avrà ucciso il marito, sia uccisa, e i suoi beni siano assegnati ai parenti del marito, mentre se il marito avrà ucciso ingiustamente la moglie, paghi un risarcimento di 1200 scudi..." A Venezia viceversa abbiamo numerose sentenze di condanna per uxoricidio che prevedono la condanna a morte del marito. Anche nei casi di violenza carnale abbiamo numerose sentenze che vedono la donna in posizione vantaggiosa.
Nella civilissima Firenze la donna aveva meno possibilità che a Venezia di disporre dei propri beni in sede testamentaria. A Venezia la donna col divenire maggiorenne usciva dalla patria potestà (questo già a fine Trecento). A Venezia una donna poteva stipulare ogni tipo di atto: compravendite, locazioni, donazioni, prestiti.... Tutte possibilità impensabili altrove.
Questa ampia libertà ha permesso che a Venezia alcune donne si siano conquistate un posto nella storia: Elena Lucrezia Corner Piscopia, la prima donna laurerata nel mondo,Elisabetta Caminer Turra, considerata la prima redattrice letteraria in Europa, Rosalba Carriera, la prima pittrice donna a cui la società colta dell'epoca aprì le porte di corti reali e palazzi nobiliari, e Lucrezia Marinelli, prima femminista della storia, autrice del libro: Della nobiltà et eccellezza delle donne (1610).

Venezia, le opere in vetro di Tristano di Robilant



Sara' inaugurata venerdi' presso il Centro Studi di Storia del Tessuto e del Costume di Palazzo Mocenigo la mostra "Tristano di Robilant: otto sculture in vetro" che propone opere realizzate a Murano dall'artista londinese di origini veneziane.
  Allestita nel portego al primo piano del Museo, la mostra - a cura di Alessandra Landi - rappresenta un omaggio a Venezia e un intenso dialogo tra allestimento, arti applicate, scultura, tradizione del materiale e nuove sperimentazioni nella lavorazione.
  L'opera di Tristano di Robilant, specialmente in questa occasione, si riallaccia all'aurea veneziana tramite il vetro e l'evocazione di temi secolari. Il colore ambra, utilizzato per varie sculture, e alcune punte di rosso dogale, richiamano le icone bizantine sia per l'intensita' coloristica, che per la forte carica spirituale, accentuata nei momenti in cui i caldi raggi crepuscolari accarezzano le superfici. Anche la purezza, data dalla trasparenza del vetro, ricorda l'elemento principe di Venezia: l'acqua.
Le linee, quasi sempre sinuose, giocano con i diversi pezzi delle sculture che oscillano tra un incerto equilibrio e una sicura fermezza della parte piu' esterna.

Fonte: AGI

Eleonora Duse

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Eleonora Duse, che abitò a lungo all'ultimo piano di palazzo Barbaro Wolkoff sul Canal Grande tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, si sentiva veneziana nell'anima. D'altronde l'attrice, sebbene nata a Vigevano nel 1858, era originaria di Chioggia da parte di padre.
Palazzo Barbaro è separato da poco più di due metri dal palazzo Dario, che a quell'epoca era abitato dalla contessa De La Baume, che vi accoglieva una piccola corte di amici intellettuali: Angelo Conti, Mariano Fortuny, Mario de Maria, Gabriele D'Annunzio e altri.
Il grande regista Reinhardt favoleggiò di un casuale incontro tra la Duse e D'Annunzio vicino alle porte d'acqua dei due palazzi. Chissà, forse potrebbe persino essere vero!
Proprio Venezia quindi (città nella quale ebbe il suo primo grande successo teatrale conLa principessa di Baghdad di Alexandre Dumas nel 1882), fu lo sfondo della loro tormentata storia d'amore, narrata dallo stesso D'Annunzio nel suo libro "Il Fuoco".
Seguire le vicende di questo amore aiuta a comprendere meglio sia lei che lui, ed è un vero peccato che le lettere di Gabriele ed Eleonora siano state distrutte per volontà della stessa Eleonora.
Ella fu una grandissima attrice, e se ebbe una vita sentimentale animata e varia, seppe trarne giovamento per la sua arte.
Dopo il matrimonio con l'attore Teobaldo Checchi (da cui ebbe una figlia, Enrichetta), ebbe diversi amanti, ma poi nel 1884 si legò col poeta e musicista Arrigo Boito, un uomo di vasta e profonda cultura, autore del Mefistofele e di numerosi libretti d'opera di Giuseppe Verdi, tra cui l'Otello e il Falstaff. Boito adattò per la Duse Antonio e Cleopatradi Shakespeare che andò in scena il 22 novembre 1888 al Teatro Manzoni di Milano.
La loro relazione durò sette anni e fu intensa ed appassionata, come testimoniano le numerose lettere rimaste. Boito fu per lei amico, amante e maestro.
Donna intelligente e libera, fu considerata con Sarah Bernhardt la più grande attrice dell'epoca e simbolo della belle epoque.
Quando inizia la sua relazione con D'Annunzio è al colmo della celebrità in Europa e oltre oceano, e ci si domanda chi dei due ha dato di più all'altro. Infatti fu lei a portare sulle scene i drammi dannunziani: Il sogno di un mattino di primavera, La Gioconda, Francesca da Rimini, La città morta, La figlia di Iorio, spesso finanziando ella stessa le produzioni e assicurando loro il successo e l'attenzione anche fuori dall'Italia.
Il 2 marzo 1904 al Teatro Lirico di Milano l'opera La figlia di Iorio viene interpretata da Irma Grammatica, poiché la Duse si era detta malata, ma forse il problema era un altro. Nella vita di D'Annunzio infatti si stava affacciando la marchesa di Rudinì, e la storia con la Duse era giunta alla fine.
Nel 1907 D'Annunzio scriverà nei suoi Taccuini: "Nessuna donna m'ha mai amato come Eleonora, né prima, né dopo. Questa è la verità lacerata dal rimorso e addolcita dal rimpianto". Ma lei questa frase non la lesse mai: i Taccuini furono pubblicati solo nel 1965.
Il fotografo Giuseppe Primoli ebbe il privilegio di fotografarla nel suo appartamento a Palazzo Barbaro, così lo descrive: "L'aveva arredato con pochi mobili antichi e molti tappeti, i fianchi delle lunghe scale che occorreva salire per giungervi, erano stati ricoperti con stoffe scarlatte appese". La Duse chiese di non rendere pubbliche quelle fotografie, che infatti vennero pubblicate solo dopo la sua morte, avvenuta a Pittsburgh nel 1924.
Fu sepolta ad Asolo, dove negli ultimi anni abitò in un elegante palazzetto nella splendida Via Canova. Pochi anni prima aveva scritto ad un amico: "Asolo è bello e tranquillo, paesetto di merletti e poesia. Non è lontano dalla Venezia che adoro, vi stanno dei buoni amici che amo. Questo sarà l'asilo della mia ultima vecchiaia, e qui desidero essere seppellita"
Sulla sua lapide D'Annunzio dettò l'epitaffio: "Figlia ultimogenita di San Marco".

La via delle spezie




Semi, cortecce, delicate foglie e minuscoli frutti, essiccati e usati per aromatizzare i cibi, sono alla base della ricchezza di Venezia. Species deriva dal latino e significa merce speciale, di valore. In opposizione alle cose ordinarie questa definizione include, quindi, tutti i prodotti costosi e unici nel loro genere.
Provenienti da terre avvolte nel mito, le spezie fuggono il banale, il quotidiano, il consueto, evocano sensazioni sconosciute, sapori insospettabili, raffinatezze inaudite. Il loro impiego in cucina risale al tempo dei Romani, quando il Mediterraneo era un lago senza frontiere.
Se il mito colloca le spezie tra gli alberi del paradiso terrestre, i medici dell'antichità le considerano un rimedio contro le malattie. L'importanza di uno stretto legame tra dietetica e benessere ne determina perciò un uso abbondante sia nelle vivande che al termine del pasto, servite confettate o mescolate al vino. Se mettiamo definitivamente da parte la falsa opinione che le spezie servissero per conservare i cibi o nascondere gli odori degli alimenti, si comprende che l'uso di quei sapori era una scelta di gusto e benessere. Il loro costo elevato rappresenta poi un elemento di prestigio che assume presto un significato di status symbol.
A consentire il mantenimento del lusso - nel momento in cui l'impero romano si sfalda - ci pensa Venezia che ben presto assume in questo commercio un ruolo determinante. Scelte politiche appropriate  e intelligenti accordi economici consentono ai mercanti veneziani di commerciare in condizioni privilegiate. Così Venezia assume il monopolio e dal bacino di San Marco si dipartono le rotte di levante e di ponente, perché si acquista in Oriente e si esporta in tutta Europa, facendo passare ogni cosa per Rialto. Si crea la mitica Via delle Spezie che dall'Estremo Oriente arriva ad Antiochia e Petra, oppure dall'Indonesia e dall'India attraverso il Golfo Persico, Bassora, e da lì via terra fino a Damasco. C'è poi la "Via del Cinnamomo": Molucche, Madagascar, Zanzibar, risalendo il Nilo fino ad Alessandria d'Egitto.
Cinquemila tonnellate di spezie trasportate annualmente da una cinquantina di galere e da circa tremila navi a vela, rendono l'idea di questo commercio nell'epoca d'oro.
Nel cuore del mercato di Rialto, la Ruga degli Spezieri raccoglie un'eredità lunga di secoli. I magazzini traboccano di spezie di ogni varietà: piper nigrum, pepe longo, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, macis, zafferano, zenzero, in un'orgia di colori e profumi.
Gli spezieri veneziani triturano e mescolano, provano gusti, studiano combinazioni, verificano effetti. Diventano i più abili confezionatori del mercato mondiale, inventano il "marketing" e il "packaging" delle spezie, miscele ready to use che vengono chiamati "sacchetti veneziani"
Poi Vasco de Gama doppia il Capo di Buona Speranza e le merci cominciano ad arrivare in Europa tramite i portoghesi e gli olandesi. è l'inizio della fine della potenza commerciale della Serenissima.

(fonte: C. Coco)

Ti con nu, nu con ti

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Il 12 maggio 1797 si svolge a Venezia, nel Palazzo Ducale, l'ultima tragica riunione del Maggior Consiglio, durante la quale la Serenissima Repubblica dichiara la propria fine:
è la conclusione dell'anacronistica strategia veneta di neutralità disarmata e della condotta spietata di Napoleone.
Il 16 maggio viene creato un governo provvisorio (del quale l'ex Doge rifiuta di far parte) e, per la prima volta, sfilano in Piazza San Marco truppe nemiche. La dominazione francese dura ben poco, poiché, con i preliminari di Campoformio conclusi il 17 ottobre all'una dopo mezzanotte, ai francesi succedono gli austriaci.
Il breve periodo di occupazione delle forze rivoluzionarie sarà però ricordato per le razzie e le rapine che portano a Parigi circa 20.000 opere d'arte, tra le quali il leone di San Marco e i quattro cavalli della Basilica (innalzati sull'arco di trionfo del Carrousel).
Mentre sta deponendo le insegne del potere, l'ultimo doge Ludovico Manin viene severamente apostrofato da Francesco Pisani con queste parole: "Tolé su el corno e andé a Zara", esortandolo così a non abdicare, ma a rifugiarsi col governo in Dalmazia, terra fedelissima a Venezia.
Se a Venezia una parte della popolazione tumultua per qualche ora al grido di 'San Marco', in Dalmazia l'emozione per la caduta della Repubblica è vivissima: la disillusione, la rabbia e lo sconcerto per l'ineluttabilità della situazione si impadroniscono dei dalmati.
A Zara il gonfalone purpureo è portato in processione per l'ultima volta da tutta la popolazione, ma la cerimonia più commovente avviene a Perasto, che si gloriava di non esser mai stata presa dai turchi. Perasto, posta all'inizio della baia di Cattaro, aveva, per il suo valore, ottenuto il privilegio di fornire a Venezia i custodi del gonfalone e dimostra di saper concludere degnamente la sua unione con Venezia. La bandiera viene portata dalla popolazione, vestita a lutto e piangente, nella chiesa parrocchiale per essere posta sotto l'altare maggiore.
Prima di deporla il Conte Giuseppe Viscovich pronuncia queste celebri parole:
"Savarà da nu i nostri fioi, e la storia del zorno farà saver a tutta l'Europa che Perasto ha degnamente sostenudo fino all'ultimo l'onor del Veneto Gonfalon.
Per 377 anni la nostra fede, el nostro valor l'ha sempre custodio per terra e per mar, per tutto dove ne ha chiamà i so nemici, che xe sta pur quelli della Religion.
Per 377 anni le nostre sostanze, el nostro sangue, le nostre vite, le xe sempre stae per ti, o San Marco,
e felicissimi sempre se avemo reputà: ti con nu, nu con ti;
e sempre con ti sul mar nu semo stai illustri e virtuosi.
Nissun con ti n'ha visto scampar, nissun con ti n'ha visto vinti e paurosi".
Era il 23 agosto, ed erano gli ultimi vessilli veneti a venire deposti.

L'espressione 'Ti con nu, nu con ti' verrà ripresa nel 1919 da Gabriele D'Annunzio nella Lettera ai Dalmati ed era stata il motto della squadriglia aerea di San Marco da lui comandata.
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“L’emozione che ti dà questa città non è paragonabile a nessun’altra, è talmente poetica e originale che ti viene da piangere, ci si rifà di tutte le perdite e le disgrazie. Anche solo la Basilica di San Marco vale il viaggio, ah, com’è toccante vedere questo divino vecchietto bizantino”
(Viktor M. Vasnetsov , 1885)

Piazza San Marco, il salotto di Venezia




Nei primi secoli della storia di Venezia la Piazza era un semplice "brolo", cioè un campo erboso, separato dalla Basilica di San Marco da un canale: il rio Batario (poi interrato nel Duecento). Secondo la Cronaca Dandola, la Piazza venne pavimentata in cotto (con mattoni inseriti verticalmente e disposti a spina di pesce) una prima volta nel 1267, poi lastricata con riquadri di pietre cotte, intramezzate da liste di marmo, nel 1392, per volere del doge Antonio Venier. Seguì il restauro del 1626 e la pavimentazione in trachite (dai vicini Colli Euganei, pietra che ha la proprietà di non divenire scivolosa anche consumandosi nel tempo), su disegno del Tirali, nel 1723. Infine, nel 1893, la pavimentazione della piazza venne rinnovata nel disegno che ha ancora oggi.

Nell'antica Piazza San Marco erano presenti anche delle vere da pozzo, ma quante fossero non è ben chiaro: nel 1283 se ne trovava uno all'imbocco delle Mercerie, mentre nel 1494 lo storico Marin Sanudo parla di due vere da pozzo. In epoche successive, comunque, tutte le cronache parlano di un solo pozzo posto in fondo alla piazza, vicino alla Chiesa di San Geminiano (chiesa fatta abbattere agli inizi dell'Ottocento per volere di Napoleone, il quale fece realizzare al suo posto la cosiddetta "Ala Napoleonica" che ancora oggi chiude la piazza sul lato opposto a quello della Basilica).

Piazza San Marco è da sempre lo spazio destinato a ospitare tutti gli avvenimenti più importanti della vita cittadina veneziana. Una di queste cerimonie si svolgeva la domenica delle Palme, al termine della quale, dalla loggia della Basilica, si liberavano dei colombi. Ai volatili venivano preventivamente legati dei pesetti alle zampe per impedir loro di volare troppo in alto e per esser quindi velocemente ricatturati. Ma non tutti venivano presi e così, nel tempo, diversi colombi cominciarono a nidificare sulla Basilica e sui tetti delle Procuratie e del Palazzo Ducale, arrivando a moltiplicarsi enormemente nei secoli. Ad essi pensava la Repubblica con quotidiane distribuzioni di grano.

Aldo Manuzio e l'arte della tipografia nel Rinascimento




 Aldo Manuzio (Velletri 1449 - Venezia 1515) è considerato il più importante tipografo del Rinascimento nonché il primo editore in senso moderno.
Giunto a Venezia intorno al 1490 aprì la sua tipografia a Sant'Agostin, e il suo logo (qui a fianco) rappresentava un'ancora e un delfino, con il motto 'festina lente' cioè 'affrettati con calma'. La sua ambizione era preservare la letteratura greca e latina dall'oblio, diffondendone i capolavori in edizioni stampate.
In tutto Manuzio stampò circa 130 opere, in greco, in latino e in volgare, fra le quali anche opere di contemporanei quali Erasmo, Angelo Poliziano o Pietro Bembo, ma soprattutto i grandi classici, da Aristotele a Tucidide, da Erodoto a Cicerone, da Sofocle a Luciano, a Catullo, a Virgilio, a Ovidio, a Omero e molti altri.
Ma il suo vero capolavoro fu l' Hypnerotomachia Poliphili, sogno di qualunque bibliofilo, pubblicato nel 1499 e corredato di 170 splendide xilografie (una copia è conservata alla Biblioteca Marciana).
Manuzio è ricordato anche per la creazione del carattere corsivo, detto anche 'italico', e per l'utilizzo della stampa 'in ottavo' che rese i libri, per la prima volta, maneggevoli, leggeri e quindi facilmente trasportabili.
Fondò, inoltre, l'Accademia Aldina insiema a Pietro Bembo, il cui intento era di dare impulso allo studio dei classici greci in Italia ed in Europa.
L'arte del Manuzio ebbe così vasta eco anche grazie all'amore e all'interesse che i veneziani sempre dimostrarono per i libri. Per darne un'idea: nel 1500 in città si contavano circa 200 tipografie, più di quante ne avevano Parigi e Lione insieme (Firenze ne aveva 22, Roma 37). Il libro veneziano inoltre era particolarmente apprezzato per la qualità della stampa e la rilegatura raffinata quanto durevole, tanto che quando un libro si presentava di particolare pregio si diceva 'legato alla veneziana'

Fra Mauro, il cosmografo del diavolo




Si racconta che un giorno un senatore veneziano andò a far visita a un umile converso del monastero camaldolese sull'isola di San Michele. Fra Mauro da Venezia se ne stava ritirato nel suo laboratorio intento a disegnare un planisfero su una grande pergamena.
L'onore della visita non confuse il monaco, che era stimato per le sue perizie d'ingegnere e disegnatore di carte nautiche. Si diede quindi da fare per spiegare al visitatore il lavoro che lo teneva impegnato. Il senatore si dimostrò subito ansioso di controllare dove fosse la città del Leone, ma confondendosi tra lo splendore delle dorature e i colori dei nomi variopinti, domandò con impazienza: "Dove zela Venezia?", "La xe qua" rispose il frate indicandola con l'indice, "E perché cussì piccola?" chiese insoddisfatto il senatore, "La xe in proporzion del mondo" spiegò pazientemente Fra Mauro. La risposta non piacque al senatore che, andando fiero della grandezza della Serenissima, replicò: "Fè el mondo più piccolo e Venezia più granda". Fra Mauro non seguì il consiglio e lasciò Venezia in proporzione del mondo, contribuendo ugualmente, con il suo lavoro, alla gloria della Dominante.
Poche sono le notizie sulla vita di Fra Mauro, a confronto dell'enorme fama goduta presso i suoi contemporanei. Si sa che è veneziano, che vive e opera nella prima metà del XV secolo, e che probabilmente muore nel 1459. E' un converso che ha vestito l'abito in età adulta e tale rimane la sua qualifica. Non ci sono dubbi neanche sul fatto che dal 1443 al 1459 dimori esclusivamente sull'isola di San Michele.
Esperto di idraulica e d'ingegneria, la Repubblica lo chiama a consulto sul modo più conveniente per deviare il Brenta affinché non sfoci in laguna. Segno che si era servita della sua opera anche in altre occasioni.
La rinomanza di Fra Mauro è però legata alla cartografia. Aiutato da valenti collaboratori sia laici che confratelli, nel suo laboratorio compone molte carte geografiche e vari scritti, tutti andati sfortunatamente perduti. Tra le opere che gli vengono attribuite ci sono un portolano del bacino mediterraneo e delle coste orientali dell'Africa, rinvenuto nel 1822, un'altra riguarda il frammento di una grande mappa circolare scoperta nel 1955 nella biblioteca del Palazzo Topkapi a Istanbul.
Tra i suoi ultimi lavori vi è un planisfero per il sovrano di Portogallo, iniziato nel 1457 e consegnato nell'aprile del 1459 per mezzo del patrizio veneziano Stefano Trevisan. Il planisfero fu molto studiato e servì da guida per i viaggi compiuti da portoghesi e spagnoli nella seconda metà del Quattrocento. Note di spese e di pagamento nei vecchi registri del monastero ne attestano con certezza l'esecuzione, dal momento che l'opera è andata perduta.
L'unica tra le opere del frate giunta intatta fino a noi è il magnifico e famoso planisfero (detto impropriamente 'mappamondo') custodito per tre secoli a San Michele e, alla soppressione del monastero, trasferito nella Biblioteca Marciana di Venezia. Di proporzioni monumentali e d'una ricchezza senza precedenti, il planisfero è considerato un capolavoro cartografico. Il celeste intenso dei mari, il verde dei fiumi, il rosato, il carminio e l'azzurro dei monti, le lettere d'oro dei nomi dei regni più importanti e quelle rosse delle altre località, le file degli alberi che segnano i confini delle provincie, le città in miniatura, le didascalie in rosso e azzurro danno al planisfero un aspetto variopinto. Ma il maggior pregio di quest'opera superba sta nel fatto che riassume tutte le conoscenze geografiche dell'epoca.
Geografia e cosmografia erano discipline tradizionalmente approfondite nel monastero di San Michele, ed è certo che Fra Mauro si è dedicato a lunghi e profondi studi dei geografi antichi; egli si avvalse inoltre di relazioni scritte, di carte nautiche provenienti dall'estero, ma anche di contatti diretti avuti con viaggiatori e naviganti da lui interrogati per raccogliere notizie sulle terre che avevano attraversato o sui mari che avevano solcato.
I colori magnifici, la precisione e la profondità del tratto, la correttezza delle notizie, la perfezione tutta dell'opera, insomma questo navigare nel mondo senza uscire mai dai confini esigui dell'isola, hanno creato una leggenda sul frate. Una voce di popolo dice che nelle notti particolarmente fosche il cosmografo avesse la capacità di concentrare i sogni di Lucifero sull'isola, proiettandoli poi sulle nuvole. I paesi che l'angelo del male andava sognando, il frate li catturava imprigionandoli sulla pergamena. Così ha potuto conoscere il mondo intero.
La Signoria di Venezia, a cui il planisfero è dedicato, per tramandare ai posteri la sua fama coniò un ritratto del converso. Tutto intorno al profilo del monaco, vecchio e con il volto emaciato, gira la frase:"Frater. Maurus. S.Michaelis. Moranensis. De. Venetiis. Ordinis. Camaldulensis. Cosmographus. Incomparabilis."
Un solo aggettivo che basta a contenere l'impareggiabile straordinarietà del cosmografo del diavolo.

Chiesa dei Santi Biagio e Cataldo




Verso l'estremità occidentale della Giudecca dove, alla fine dell'Ottocento sorse l'imponente mole del Mulino Stucky, esisteva una modesta chiesa a servizio dei pellegrini della Terrasanta, dedicata ai Santi Biagio e Cataldo. La prima consacrazione della chiesa risale al 1188. Nel 1222 la beata Giuliana dei Conti di Collalto giunse su questa isola dove fondò un monastero annesso alla preesistente chiesa. Nel XVI secolo l'intero complesso subì un importante restauro, e la chiesa venne completamente rinnovata per mano di Michele Sanmicheli. Un ultimo restauro venne effettuano agli inizi del '700, sotto la direzione di Domenico Rossi e di Giorgio Massari. I lavori comportarono anche la demolizione del coro pensile le cui colonne furono impiegate per realizzare il portico laterale della vicina chiesa di S. Eufemia. Si rinnovarono anche gli arredi, gli altari e la decorazione pittorica con nuovi dipinti e pale d'altare.
A giudicare dalla vastità e dal numero degli ambienti, oltre ai fatti storici a cui fu legata (tra i quali la visita di Pio VII nel 1800), si deve pensare che la Chiesa e il monastero dei Santi Biagio e Cataldo avessero raggiunto nei secoli una notevole consistenza edilizia e una sempre maggiore importanza.
Ciò non valse però ad impedirne la soppressione nel 1810 e la conseguente spoliazione. Fu dapprima utilizzato come ospedale per malattie infettive, quindi il complesso passò in mano a privati che iniziarono a demolirlo per ricavare materiale da costruzione. Nel 1882 quel poco che restava fu raso al suolo e disperso.

Frederick Rolfe, Baron Corvo




"Corvo", perché questo epitaffio? Per romanticismo?
A Rolfe era sempre piaciuto il blasone, quand'era seminarista si componeva lo stemma, immaginava insegne, arrivava in refettorio con un corvo impagliato sulla spalla.
Una vita di solitudine e di miseria, un carattere instabile, eccentrico, cavilloso, vizioso, vendicativo, dotato per tutte le arti, sempre in lite con gli amici, cartomante, invaghito del passato della Chiesa, del Rinascimento, adorava i fasti cattolici senza la vocazione del sacerdozio.
A. Symons, nella sua famosa Quest for Corvo (indagine postuma condotta presso tutti coloro che avevano conosciuto Rolfe), traccia la sua vita dal seminario fino a Venezia.
Baron Corvo però non doveva trovare da appollaiarsi in quella città senza alberi.
Membro del circolo nautico del Bucintoro, Corvo aveva anche imparato a condurre la gondola, arte antica e difficile. Quando cadeva in acqua, continuava a fumare la pipa, così come Byron quando nuotava nel Canal Grande teneva il sigaro in bocca per "non perdere di vista le stelle".
Corvo, autore del prestigioso Adriano VII (1904), che conobbe il successo solo dopo la sua morte (1913), ci ha lasciato, del suo incontro con Venezia, una lettera bella quanto una notte bianca in laguna: "Un mondo crepuscolare, fatto d'un cielo senza nubi, d'un mare senza increspature, dove tutto è malva, tiepido, liquido e limpido, tagliato da strisce di rame bronzeo, che va fondendosi nell'azzurro insondabile".
Ancora ci sembra di vedere Corvo scacciato da tutte le locande, portare a spasso i suoi panni in un paniere e dormire sul fondo di una barca, sempre sull'orlo del suicidio, scrivere a fior d'acqua su un quaderno gigante, in pieno inverno, le sue famose "Lettere a Millard" che nessuno potrà mai leggere.

Buon compleanno Venezia!


Tra il III e il V secolo, l'Italia è teatro di feroci scorribande da parte di popolazioni barbariche provenienti da est e da nord. Iniziano così nel Veneto le migrazioni di genti verso la laguna, alla ricerca di rifugio.
La laguna era il luogo ideale dove riparare, in quanto l'acqua stessa risultava invalicabile alle orde degli invasori, i quali si muovevano per lo più a cavallo.
Proprio in quegli anni un'antica leggenda pone la nascita della città di Venezia: è il 25 marzo dell'anno 421. data della fondazione della chiesetta di San Giacomo costruita su di un'isola un poco più alta delle altre, e per questo chiamata rivus altus (da cui Rialto). Non a caso il 25 marzo corrisponde alla data dell'Annunciazione del Signore, infatti Venezia fu sempre particolarmente devota alla Vergine Maria.
Dunque oggi Venezia compie 1590 anni!

"Alberto Faletro e Tomaso Candiano, o Zeno Daulo, furono quelli sopredetta opera eletti, i quali insieme con tre principali gentiluomeni, andati a Riva Alta, l’anno sopradetto 421 il giorno 25 del mese di Marzo nel mezzo giorno del Lunedì Santo, a questa Illustrissima et Eccelsa Città Christiana, e maravigliosa fù dato principio ritrovandosi all’hora il Cielo (come più volte si è calcolato dalli Astronomi) in singolare dispositione".

Tour in barca per la Laguna di Venezia




L'offerta dei servizi de L'altra Venezia si arricchisce ancora: un nuovo itinerario in barca a vela alla scoperta delle isole della Laguna Nord di Venezia.
Il tour, creato in collaborazione con l'Associazione Navigador, viene effettuato su una tipica imbarcazione dell'alto Adriatico, il "bragozzo", mosso a vela o a motore.
Già dalla seconda metà del Cinquecento, il bragozzo veniva utilizzato come barca da pesca lagunare. Nel tempo divenne una vera e propria barca d'altura per la pesca in mare.
La proposta ha l'obiettivo di andare alla scoperta di alcune isole poco conosciute (anche perché non raggiungibili con i mezzi pubblici) e delle attività di pesca e viticoltura che ancora vi vengono svolte.

L'itinerario prevede:
- partenza da Venezia (Ponte Tre Archi, raggiungibile a piedi o con i vaporetti linee 51, 52, 41, 42) o dalla terraferma (Forte Marghera a Mestre, raggiungibile in auto)
- navigazione in laguna fino all'isola di Mazzorbo, dove è previsto un incontro con i pescatori locali
- sbarco e visita alla chiesa di S. Caterina e alla cantina Venissa
- passeggiata a piedi fino a Burano dove ci si imbarca nuovamente con destinazione Isola di San Francesco del Deserto
- pranzo a bordo con prodotti tipici veneti
- nel pomeriggio visita del convento francescano
- imbarco e navigazione costeggiando l'isola di Sant'Erasmo, ricca di orti che forniscono le primizie poi vendute al mercato di Rialto
- sbarco e visita guidata all'isola del Lazzaretto Nuovo (area archeologica)
- imbarco e ritorno al punto di partenza nel tardo pomeriggio

Il tour viene effettuato per un minimo di 6 persone.
Periodo: da maggio ad ottobre.

Per maggiori informazioni: info@laltravenezia.it
o scheda tecnica: http://issuu.com/walterfano/docs/laguna_nord_laltravenezia

Liber Mutus

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Il Liber Mutus rappresenta il più famoso ed enigmatico testo alchemico. Il libro tratta del processo psicologico di realizzazione del sé proiettato dagli alchimisti nella trasmutazione della materia, la ricerca dell'immortalità, simbolizzata dall'oro, nelLapis Philosophorum, e nell' elixir vitae.
In sole 15 tavole, sono illustrate tutte le operazioni fondamentali della Grande Opera attraverso un insieme di immagini allegoriche, ricche di dettagli, il cui simbolismo il lettore è chiamato ad interpretare. Il linguaggio iconografico è considerato sufficiente di per sé a comunicare quei segreti che è impossibile esprimere per mezzo della parola.
Le uniche frasi scritte si trovano nella prima, nella penultima e nell'ultima tavola. Nella prima tavola leggiamo: "Il Libro Muto, nel quale l'intera filosofia ermetica viene rappresentata in forma di figure geroglifiche, consacrato a Dio misericordioso, tre volte massimo ottimo, e dedicato ai soli figli dell'Arte, da un autore il cui nome è Altus".
Le enigmatiche serie di numeri e di sigle che seguono vanno lette al contrario (da destra a sinistra) e si rivelano essere dei riferimenti a specifici versetti biblici.
Nella penultima tavola, in fondo, leggiamo: "Prega, leggi, leggi, leggi, rileggi, lavora e troverai": consiglio singolare per un libro in cui non c'è praticamente nulla da "leggere" in senso stretto, eppure è un invito prezioso a ricavare dalle immagini quegli insegnamenti che la parola non potrebbe comunicare.
Nell'ultima tavola, i due filatteri che escono dalla bocca dell'uomo e della donna inginocchiati di fronte alla gloria dell'alchimista recano le parole: "Dotato di occhi chiaroveggenti te ne vai".
La prima edizione stampata del Liber Mutus fu pubblicata a La Rochelle nel 1677. Le tavole, ridisegnate e migliorate dal punto di vista grafico, furono poi incluse nella monumentale Biblioteca Alchemica Curiosa di Manget (Genève, 1702). Seguirono quindi varie riedizioni del libro, tra le quali merita una menzione particolare una versione a colori, ritrovata in un manoscritto della fine del XVIII secolo custodito alla "Library of Congress" di Washington.
Una preziosa copia della versione manoscritta originale fu portata a Venezia da Joserf Nassì e nascosta nel giardino segreto di Melchisedec dietro alla Schola Levantina in Ghetto Vecchio...

Oh Venezia, Venezia!

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"Oh Venezia, Venezia! Le tue lagune sono per me un incantesimo intenso. Ora sono solo e i luoghi che mi parlano di te hanno una magia indicibile; i volti e le voci mi ricordano un'armonia senza eguali. Venezia, quanto sono felice di rivederti!"
(Franz Liszt, 1839)

Hugo Pratt, viaggiatore incantato




"Avevo quattro o cinque anni, forse sei, quando mia nonna si faceva accompagnare da me al Ghetto Vecchio di Venezia. Andavamo a visitare una sua amica, la signora Bora Levi, che abitava in una casa vecchia. A questa casa si accedeva salendo un’antica scala di legno esterna chiamata “scala matta” oppure “scala delle pantegane”, o ancora “scala turca”. La signora Bora Levi mi dava un confetto. una tazza di cioccolata bollente e densa, e due biscotti senza sale. che non mi piacevano. Poi lei e la nonna, immancabilmente, si sedevano e giocavano a carte, sorridendo e sussurrando frasi per me incomprensibili. E così, a me non restava che passare minuziosamente in rassegna tutti i cento medaglioni appesi alla parete di velluto rosso scuro, che mi osservavano dai loro ovali di vetro. Dico che mi osservavano, perché questi medaglioni racchiudevano vecchi ritratti di severi signori in uniformi asburgiche o di rabbini con treccine nere e feltri a larghe tese. E tutti sembravano fissarmi con un’insistenza che certo sconfinava nell’indiscrezione. Un po’ imbarazzato andavo alla finestra della cucina e guardavo giù in un campiello erboso con una vera da pozzo coperta di edera. Quel campiello ha un nome: Corte Sconta detta Arcana. Per entrarvi si dovevano aprire sette porte, ognuna delle quale aveva inciso il nome di un shed, ossia di un demonio della casta dei Shedim, generata da Adamo durante la sua separazione da Eva, dopo l’atto di disubbidienza . Ogni porta si apriva con una parola magica, che era poi il nome del demone stesso.
Li ricordo ancora quei nomi terribili: Sam Ha, Mawet, Ashmodai, Shibbetta, Ruah, Kardeyakos, Nà Amah.
Ricordo che un giorno la signora Bora Levi mi prese per mano e mi condusse nella Corte Sconta illuminando il cammino con un “menorah”, il candelabro a sette braccia, e ogni volta che apriva una porta soffiava su una candela. La corte era piena di sculture e graffiti: un re armato di arco e frecce, a cavallo di un dio; un neonato; una cacciatrice anch’essa con arco e frecce; una vacca con un occhio solo; una stella a sei punte; un cerchio tracciato nei suo1o con lo scopo di far ballare una ragazza nuda; i nomi degli angeli caduti o veleni di Dio, Samael, Satael, Amabiel. La signora ebrea mi parlava di tutte quelle cose, rispondendo alle mie domande. Poi apriva una porta sul fondo della corte e mi faceva passare in una calle con le erbe alte, che conduceva in un altro campiello bellissimo e che molto più tardi ritrovai uguale e pieno di fiori in una casa della Juderia di Cordoba.
Ricordo che nella Corte Sconta c’era una signora molto bella, sempre circondata da bambini e fanciulle che giocavano attorno a una farfalla gigante di vetri colorati. Era Aurelia, la farfalla gnostica.
La gnosi rappresentando se stessa come fonte inesauribile di sapienza e offrendo, in mille riflessi di vari colori, quello che ognuno desidera..."

(Hugo Pratt)
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“Vustu che mi te insegna a navegar?
Vate a far una barca o una batela,
Co ti l’a fata, butila in mar,
La te condurà a Venezia bela”.
Così recita una delle delicate Villotte Veneziane. Pratt, invece, ha fatto in qualche modo il percorso inverso. Dopo l’infanzia veneziana ha girato il mondo e la sua barca l’ha condotto lontano, dall’Africa al Sud America.
Questo tuttavia non lo ha snaturato: una volta imparato “a navegar” a Venezia, è stato ben capace di solcare tutti i mari, ovunque riscoprendo – in un angolo, in un’atmosfera, in un personaggio – Venezia,
e a Venezia poi ritrovando luoghi, colori, sensazioni dei più sperduti posti del globo.
Sì, un viaggiatore incantato. E di tanta sua meraviglia ci ha fatto partecipi. Quanti tramonti esotici, quanti inseguimenti, quante avventure abbiamo vissuto insieme a Corto Maltese!
Umberto Eco ha definito Pratt “il Salgari dei nostri tempi”, ma se Sandokan è l’eroe perfetto, Corto è l’uomo del nostro tempo, è Ulisse nel cuore e nella mente. E infatti, quale altro aggettivo meglio si adatta a Corto se non il “politropos” che Omero straordinariamente scelse per il re di Itaca?
Amava dire Pratt: “Mi diverte essere inutile”. Era una sfida, uno sberleffo contro chi si ostinava a non capirlo e a non coglierne la grandezza d’artista. Ma era anche la semplice verità.
Certo che si divertiva, perché lui sapeva “andare in altre direzioni”, uscire dal gregge, prendere il largo. E certamente era inutila, perché non si faceva usare.
Era inutile come i racconti d’avventura, inutile come i sogni, come la dolce trasgressione.
Inutile… o no?

(Massimo Cacciari)