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La Bautta e la Moretta




Oggi strettamente legato all'occasione stagionale del Carnevale, l'uso della maschera, finalizzato al mantenimento dell'anonimato, un tempo rientrava nella vita quotidiana di Venezia. Un posto d'onore nella mitologia del Carnevale veneziano spetta alla bautta (pronuncia: "baùta"), presente già in diversi quadri di Longhi e di Guardi.
La bautta è da considerare maschera assolutamente originale di Venezia. Bianca, leggermente sorridente per l'ampia sporgenza destinata ad alterare la voce, la bautta  contrasta con il nero del tabarro (ampio mantello) e del tricorno (cappello a tre punte). L'etimologia più convincente del termine è quella che lo fa risalire al "bau", cioè l'uomo nero spauracchio dei bambini. Questo travestimento prevedeva un utilizzo unisex, e risultava particolarmente gradito alle signore dedite al gioco d'azzardo o ad appuntamenti notturni illeciti.
Quasi altrettanto celebre è la moretta, maschera che consiste in un volto nero ovoidale, destinata esclusivamente alle donne, le quali, trattenendola con la bocca grazie ad un morso posteriore, mantenevano l'anonimato e il silenzio. Si ritiene che l'imposizione del silenzio alle donne non fosse casuale...
La personalità certo svanisce dietro l'eccitante esperienza del mascheramento, ma la suo posto non ne sorge un'altra con relativo complesso di significati. L'anonimato e l'incognito garantiti dalle maschere sublimano le funzioni trasgressive e a fondo sessuale connesse con l'ambiguità della maschera. Da qui evidentemente l'immenso successo di queste maschere.

Scuola dei Tiraoro e Battioro




Addossata alla Chiesa di San Stae si trova la sede della Scuola (o Scoletta) dei Tiraoro e Battioro. La Scuola venne fondata nel 1420 ed aveva inizialmente sede ai Santi Filippo e Giacomo, poi nella Chiesa di San Lio, dove rimase fino al 1710 quando si trasferì a San Stae. L'edificio, in stile tardo barocco, è attribuito all'architetto Giacomo Gaspari, che aveva partecipato senza successo al concorso per la facciata della Chiesa di San Stae.
tiraoro fabbricavano fili d'oro per la manifattura tessile, per l'abbigliamento e per l'oreficeria, mentre i battioro riducevano l'oro in lamine sottili per la decorazione di opere d'arte (ad esempio per la facciata della Ca' d'Oro sul Canal Grande, oggi sede del MuseoFranchetti).
Anche se la materia trattata era preziosa, la Scuola non fu mai ricca e anzi contrasse molti debiti per la costruzione dell'edificio. Quando la Scuola fu soppressa nel periodo napoleonico portò poche entrate alle casse del governo francese, essendo in forte passivo.
Sotto il governo austriaco l'edificio fu venduto alla nobildonna Angela Barbarigo, la quale per volere testamentario desiderò che l'immobile divenisse luogo di culto, ma gli eredi provvidero diversamente: divenne infatti deposito di carbone!
Nel 1876, in condizioni più che precarie, l'edificio fu acquistato dall'antiquario Antonio Correr che lo restaurò per destinarlo a galleria espositiva, uso mantenuto ancora oggi.
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"No gh'è a sto mondo, no, cità più bela,
Venezia mia, de ti, per far l'amor.
No gh'è dona, né tosa, né putela
che resista al to incanto traditor.

Co' un fià de luna e un fià de bavesela
ti sa sfantar i scrupoli dal cuor.
Deventa ogni morosa in ti una stela
e par che i basi gabia più saor.

Venezia mia, ti xe la gran rufiana,
che ti ga tuto per far far pecai:
el mar, le cale sconte, i rii, l'altana,

la Piazza e i so colombi inamorai,
la gondola che fa la nina-nana...
fin i mussati che ve tien svegiai!"

(Riccardo Selvatico)

Quando per un solo voto Venezia non emigrò a Costantinopoli




Pompeo Molmenti nella sua opera La storia di Venezia nella vita privata narra un fatto poco conosciuto. Agli inizi del Duecento sembra che tra i componenti del Maggior Consiglio si discutesse se fosse il caso di trasferire la sede del governo veneziano altrove, per via delle difficoltà oggettive nel vivere in una città costruita su una laguna fangosa, soprattutto alla luce di un futuro ampliamento della città che all'epoca era proiettata verso una grande rinomanza politica e commerciale.
L'occasione si presentò nel 1204 quando con la quarta crociata Venezia pose il vessillo di San Marco sulle torri imperiali di Bisanzio.  Fu lo stesso doge Pietro Ziani che espose in Maggior Consiglio l'ipotesi di trasferire la capitale proprio a Bisanzio, illustrando come la laguna di Venezia fosse povera di risorse e non ci fosse spazio per ampliare la città stessa, per non parlare del continuo pericolo d'inondazione, mentre Costantinopoli era un magnifico paese dotato di tutte le grazie e i doni di Dio.
Angelo Falier, membro di una delle più antiche famiglie veneziane rispose al doge Ziani che tra quelle paludi erano sepolti i loro padri, e che l'asperità e le difficoltà di quei luoghi erano stati la causa stessa della forza dei veneziani.
Si mise quindi al ballottaggio la proposta, e per un solo voto contrario non si aderì alla proposta del trasferimento delle istituzioni veneziane a Bisanzio!

In realtà non c'è traccia alcuna nei documenti storici di questo avvenimento narrato da Molmenti, e il racconto è verosimilmente una leggenda, ma come si sa, dietro ad ogni leggenda c'è sempre un fondo di verità...